In questo mese di giugno ormai è chiaro il fil rouge che attraversa il nostro piano editoriale: l'abruzzesità! Attraverso i sapori, diventa quasi una saudade che colpisce indistintamente gli abruzzesi che vivono lontano dalla loro terra. Abbiamo parlato del libro di Paride Vitale, il viaggio d'amore continua con Donato Renzetti, definito da Paolo Isotta uno dei grandi maestri del '900 e che scopriamo avere anche il primato di aver diretto, nella sua carriera, più di 100 titoli di opere. Orgoglio tutto abruzzese essendo nato, il Maestro, a Torino di Sangro (CH) nel gennaio del 1950. Malgrado, dopo appena un anno, la famiglia si trasferirà a Milano, il legame ancestrale con l'Abruzzo non verrà mai reciso. E poiché per conoscere la grandezza del musicista avete, negli articoli di giornali, nelle riviste specializzate e nel web, esaustive fonti di informazioni, in questo spazio vorremmo approfondire quel sapore d'Abruzzo che il Maestro porta con sé, lui che, in qualsiasi parte del mondo si trovi, di fronte ai cibi più preziosi, ai menù più ricercati, chiede sempre, se per caso, non vi sia la possibilità di un maccherone con il pomodoro!
A Torino di Sangro, le estati più belle
Maestro Renzetti, grazie di questa opportunità, anche perché per una volta non parleremo di musica o di teatro ma del sentimento che la lega all'Abruzzo
Grazie a voi, sì, un sentimento forte che mi lega a Torino di Sangro ed a tutto il territorio della vallata fino ad arrivare alla Costa dei Trabocchi. Non faccio fatica a dirle che qui ho vissuto le estati più belle della mia vita. Una terra, l'Abruzzo, che mi ha sempre voluto bene e che io ho ricambiato con impegno: penso ai 24 anni dell'Accademia musicale di Pescara, penso alle Edizioni storiche dell'Estate Musicale Frentana, ai concerti a San Giovanni in Venere, a Lanciano. Tanti i riconoscimenti: nel 2002 fui insignito del Frentano d'oro, l'anno scorso ho ricevuto dalle mani del Sindaco di Fara Filiorum Petri il 14esimo Premio Giuseppe dell'Orefice. E poi la piazzetta sottostante la mia casa è stata dedicata a mio papà, Domenico Renzetti che, emigrato a Milano, entrò per primo nell'Orchestra de La Scala e, probabilmente, devo alla genetica l'amore ed il trasporto per la musica.
Non a caso le iniziali di entrambi i vostri nomi sono DO e RE!
Diciamo un destino guidato: io a 14 anni entrai a La Scala come timpanista: mio papà, che continuava comunque a fare il bigliettaio sul tram di Milano, non era contentissimo e quando si trattava di lavori musicali lui era molto intransigente e distaccato. Poi ho scoperto che, lavorando con il papà di Carla Fracci, Luigi, che faceva l'autista, quando passavano con il tram davanti al teatro papà gli diceva "Suona, suona che là dentro ci sono i nostri ragazzi". Lui all'inizio non voleva che lavorassi alla Scala ma so che era molto orgoglioso della mia carriera. Una volta in pensione tornò a Torino di Sangro. Da lì non fummo più colleghi e si instaurò un nuovo rapporto filiale. Che nostalgia che ho dei ritorni in famiglia!
Sembra quasi un paradosso, lei ha viaggiato e diretto in tutto il mondo eppure le cose più belle le ha vissute in un paesino di 2500 anime?
Io credo che sia il paradosso di chi vive arte e musica in modo così profondo e totalizzante: la dimensione emozionale non è data dal piccolo o grande ma dall'intensità. E nelle cose piccole c'è una sorta di contraltare di umanità che, per me, è indispensabile. Ho messo sempre a disposizione il privilegio di essere tra i grandi alle esperienze più invisibili, quelle dei piccoli territori, delle realtà nascoste, degli artisti sconosciuti. Penso che l'accesso alla musica dovrebbe essere più democratico, non per sfornare più musicisti ma per essere persone più complete.
Eppure Milano e La Scala le hanno dato tanto.
Assolutamente sì ma è un'altra storia, bella, che mi appartiene, molto appagante ma in Abruzzo ho vissuto gli anni della inconsapevolezza giovanile, del primo amore, delle gite al mare, dei personaggi del paese che sembravano essere usciti dai film di Fellini e, soprattutto, dei veri amici. Noi eravamo in 7, come i magnifici del film western: 7 amici con i quali mi sono sempre dato appuntamento, anche a carriera inoltrata. Natale, Pasqua e Ferragosto significava ritornare al paese e ritrovare loro. E grazie a loro, che sono rimasti a custodire tradizioni, ho conservato, nell'archivio della mia memoria, sapori e odori degli attimi vissuti.
I sapori del maestro, con granita di vino cotto
Mi dice un sapore che le ritorna in mente ad occhi chiusi?
Sicuramente quello della pasta fatta in casa: era il rito che mia mamma consumava ogni domenica mattina. Impastava farina, acqua e sale e preparava una pasta particolare che, in dialetto, chiamava Li' rutunn, i rotondi, una specie di bucatino ma più grande e più poroso. Poi preparava tagliatelle di tutte le dimensioni, a volte fine fine da mangiare con il brodo. C'era poi un formato che piaceva molto a mio padre, lu'taccun, una specie di raviolo di sola pasta che veniva condito con il sugo finto, aglio, pomodoro ed un quintale di peperoncino. Per me la pasta è solo acqua e farina. Quando mi trovai ad insegnare all'Accademia di Pescara scoprii che, nelle altre parti d'Abruzzo, la pasta in casa si preparava con le uova: da noi le uova si usavano come merce di scambio per avere olio, vino e legumi. La stessa cosa per gli arrosticini: a Milano mi chiedevano tutti degli arrosticini ma io credo di averli mangiati per la prima volta a 40 anni, perchè la cultura dell'arrosticino non era diffusa in tutto l'Abruzzo. Incredibile che in una regione così piccola ci siano tantissime ricette e tradizioni.
E quindi un piatto di carne tipico?
A Torino di Sangro si mangia la porchetta più buona del mondo, una preparazione che si tramanda di generazione in generazione ed oggi, pensi, ci sono i figli dei miei amici che proseguono nella ricetta. Ricordo il Maestro Andrea Licata, siciliano, appena arrivato come mio ospite nel periodo estivo. La prima mattina sentì questo odore che entrava dalle finestre e, incuriosito, mi chiese di quale dolce si trattasse. Dovetti spiegargli quell'odore era la nostra colazione: pane e porchetta calda.
So che ha letto le nostre ricette, me ne dice una che vorrebbe le fosse preparata ora?
A parte i primi che assaggerei tutti, devo dire che la cicerchiata è l'altra mia passione. Anche qui il ricordo è legato a mia madre: sapeva che adoravo questo dolce, così si svegliava alle 5 di mattina e la trovavo seduta al tavolo a preparare queste palline che faceva piccole, piccole, quasi delle perle. Mi piace nella formula più semplice, senza mandorle, senza zuccherini, solo miele. La vera cicerchiata è solo con il miele. Tra i prodotti che avete catalogato ce n'è uno che, come dicono i miei giovani allievi, mi ha sbloccato un ricordo.
Mi incuriosisce, quale?
Il vino cotto. Mi ha riportato ad un Natale di 50 anni fa: a Torino era scesa tanta neve e, con i mei amici, eravamo in piazza ad aiutare a spalare la neve accumulata davanti i portoni. Un vicino di casa, che faceva il contadino, per ringraziarci, ci esortò a mettere nei bicchieri della neve pulita e poi ci versò questo sciroppo scuro chiedendoci di uniformare con il cucchiaino. Una granita indimenticabile.
Risulta vero che quando dirigeva in Italia e venivano parenti ed amici ad assistere, lei chiedeva venisse portata una cicerchiata in camerino?
Diciamo che sicuramente l'apprezzo più di un mazzo di fiori: mi ricordo una volta, ad agosto, dirigevo al Macerata Opera Festival. C'era il treno della lirica che partiva da Pescara così tanti parenti e paesani venivano a trovarmi ed una sera mi ritrovai con tre cicerchiate giganti che, ovviamente, condivisi con tutto il cast, tecnici e professori d'Orchestra. Tutto vero, quindi, è per me un dolce senza stagione, anche se sono quasi 2 anni che non ne mangio una fatta in modo artigianale.
Lo prendiamo come avviso ai naviganti sperando qualcuno lo accolga. Maestro c'è un vino abruzzese che le piace particolarmente?
A differenza del cibo, il vino non mi vede un fine intenditore. Quando ero piccolo il vino sfuso ce lo portava un contadino che lo chiamava Lu fermentat. Preferisco i rossi ai bianchi e sono contento che il Montepulciano d'Abruzzo stia riscuotendo un certo consenso anche perchè, diciamocelo, sul vino abbiamo una concorrenza notevole.
E l'olio abruzzese le piace?
La mia vita tra alberghi e teatri mi porta spesso a mangiare nei ristoranti: noto che sull'olio c'è sempre una maggiore attenzione e cura. A casa uso solo olio abruzzese: in questo momento un monovarietale della provincia di Pescara che è la dritta ma mi piace molto il Cucco, mi piace l'olio forte, intenso, da mangiare anche solo con il pane.
Cibo e musica sul pentagramma
Lei ha diretto più di 100 opere, qualcuna che parli di cibo?
Devo dire che nell'opera il cibo o le grandi tavolate sono occasioni molto frequenti di creazioni musicali: nel Satyricon di Maderna, tratto da Petronio, ad esempio, c'è questo banchetto pieno salcicce e carni di ogni tipo corredate di miele e prugne, la famosa cena di Trimalcione. Nel 2000 diressi il Satyricon con la regia Giancarlo Cobelli che risolse questa cena/spettacolo in un modo geniale e di forte impatto, facendo capire, di una tavola imbandita anche il potere simbolico ed erotico. Nell'opera sono più numerosi i riferimenti al vino: il vino spumeggiante ne La Cavalleria Rusticana di Mascagni, il brindisi de La Traviata di Verdi, il vin di Spagna ne La Bhoème di Puccini per arrivare alla pozione magica di Dulcamara ne L'Elisir d'amore di Donizetti che altro non è che un vino bordeaux fino al manzanilla che Carmen usa per sedurre Don Josè. Il vino è veramente un protagonista ricorrente.
E tra i grandi compositori?
Il compositore pìù luculliano è sicuramente Gioachino Rossini: per lui comporre e dirigere erano al pari di cucinare e amare. Credo abbia inventato tante ricette ed in tutte le sue opere il riferimento al cibo c'è sempre. Anche Giacomo Puccini aveva fama di essere una buona forchetta: aveva una tenuta di caccia in Toscana e rinomati erano i suoi pranzi con la cacciagione battuta. Giuseppe Verdi, mi raccontavano a Parma, si dilettava a preparare i risotti, era un appassionato di riso. Credo che tra cucinare e comporre musica ci sia un'affinità creativa quasi complementare.
Vale anche per i direttori d'Orchestra?
Pur essendo un cultore del cibo io non so cucinare anche se mi cimento negli abbinamenti di sapori: è un po' come interpretare una partitura, ricerchi un determinato suono che abbia una fragranza, proprio come il gusto ricerca il sapore.
Però so che la sua creatività nella connessione tra opera e gastronomia sarà presto un progetto editoriale?
Io sono un collezionista seriale ed un catalogatore patologico: amo conservare e archiviare ogni oggetto che mi ricordi una emozione. Una sera a cena, in un ristorante di Genova cambiai La fanciulla del West di Puccini ne La fanciulla del Pest e lo scrissi su di un foglietto. Mesi dopo ritrovai quel pezzo di carta nel mio archivio e nel gioco cominciai a coinvolgere amici, colleghi, cantanti e direttori artistici. Oggi c'è l'dea di farne un libro con delle illustrazioni.
Concludiamo, allora, con questo gioco: un'opera abbinata ad un sapore d'Abruzzo, secondo il Maestro Donato Renzetti.
Su due piedi così mi verrebbe un omaggio alla porchetta di Torino di Sangro: Il mandarino meraviglioso di Béla Bartok che diventa Il maialino meraviglioso o, se penso all'icona abruzzese per eccellenza, La carriera di un libertino di Stravinskij che diventa La carriera di un arrosticino, Un Ballo in Maschera sarà Un timballo in maschera e L'Anello del nibelungo di Wagner sicuramente L'Agnello del Nibelungo!
Con una risata, ci congediamo dal maestro Donato Renzetti, aspettando l'uscita del libro per poterlo inserire tra le nostre Letture Gustose. Grazie Maestro!