Il menù della tradizione
Il pranzo di Pasqua teramano della tradizione era caratterizzato per prima cosa da un grande rispetto per le persone anziane della famiglia, a cui spettava la decisione su cosa si sarebbe preparato per il giorno di festa.
Ottenuto il responso, si iniziava generalmente con un doppio brodo. Il primo era ottenuto da preziose parti di recupero, ossia le orecchie e i piedi di maiale, tenute da parte sotto sale dall’uccisione dell’animale avvenuta nei precedenti mesi invernali. Dissalati, lavati bene e portati in brodo con le spezie, se ne otteneva così una prima minestra. E quindi sul fondo di un recipiente di terracotta si adagiavano pezzi di pane raffermo abbrustoliti, passati nell’uovo e fritti intervallati a pecorino grattugiato. Questa base veniva irrorata di brodo caldo e si procedeva quindi a sporzionare: prima gli anziani, a seguire gli adulti e poi i più piccini.
Nella società contadina di alcuni decenni fa, quasi ogni famiglia aveva qualche animale in casa, tanto che il secondo brodo era usualmente di gallina e veniva condito solo con dell’indivia sbollentata, sminuzzata e ripassata con le uova sbattute.
Seguivano poi le portate di carne, rispettivamente mazzarelle alla teramana, agnello al forno con le patate e agnello cacio e ova. E si chiudeva con la torta dolce di Pasqua, una spianata di pizza dolce infarcita di canditi.
Anche nelle famiglie più benestanti dell’area teramana la cuoca era generalmente di origini contadine, quindi le variazioni erano poche e perlopiù in eccesso. Un primo piatto seguiva le carni, la cosiddetta “massa tuttova”: una pasta fresca di farina e soli tuorli d’uovo tagliata alla chitarra o in forma di tagliatelle, condita con ragù di agnello rosso o bianco - anche qui a discrezione del capo famiglia.