di: Carmelita Cianci

Senza riposo mai era la tresca delle misere mani

Quando il faticoso lavoro dei contadini era scandito dalle soste

"Senza riposo mai era la tresca delle misere mani" Dante Alighieri

La mietitura e la tresca ovvero trebbiatura, un tempo erano tra gli appuntamenti più attesi nel mondo contadino, la celebrazione del ciclo stesso della vita, un vero e proprio rituale ancestrale che aggregava parenti e amici in un solidale lavoro collettivo.
Una festa che coronava un lungo periodo di lavoro, in quanto il grano rappresentava l’alimento principale delle famiglie contadine.

LA TRESCA

La trebbiatura in passato
La trebbiatura in passato
La trebbiatura in passato
Rievocazione della trebbiatura presso l'agriturismo Caniloro

L’inizio della mietitura solitamente coincideva con San Giovanni (il 24 giugno): il grano era tagliato e “sacrificato” con la falce, e veniva raccolto in covoni trasportati a dorso di mulo nell’aia della fattoria.

La trebbiatura, fase successiva che consiste nel separare la granella del frumento e degli altri cereali dalla paglia e dalla pula, era eseguita facendo passare sui fasci di grano i cavalli o i buoi, governati da un uomo al centro. Un lavoro lunghissimo che poteva richiedere anche una settimana.

L'avvento della meccanizzazione, all’inizio del secolo scorso, ha affievolito le fatiche dei contadini, attraverso la macchina pi triscà, per battere il grano, solitamente piazzata nell’aia della fattoria. Nell’arco di un’intera e intensa giornata, si cominciava all’alba e si finiva al calar del sole, in un gesto collettivo che coinvolgeva amici e parenti, si trescava.

Oggi la moderna tecnologia ha svilito la poesia e la sacralità di questa tradizione, basti pensare alle moderne mietitrebbiatrici che svolgono tutte le operazioni in poche ore.

IL RITUALE ENOGASTRONOMICO

Il rituale enogastronomico della tresca

Per le famiglie contadine quella della tresca era una giornata importante: riaffermava i legami parentali, la solidità dei rapporti con la comunità di appartenenza, ed era l’occasione per ostentare il benessere economico così da esorcizzare la penuria.

La cosiddetta grascia, l’abbondanza, si palesava nella “liturgia” culinaria delle soste; dall’alba all’imbrunire il faticoso lavoro dei contadini era scandito da momenti di ristoro con preparazioni servite dalle donne che si adoperavano alla causa: la produzione della farina, il pane per i figli.

Per orientarci e capire quale fosse il “cibo rituale” della tresca, abbiamo chiesto una mano a Berardino Abbonizio, e a suo padre Paolo, dell’Agriturismo Caniloro a Lanciano.

Nell’area frentana si mietevano e trescavano, ieri come oggi, Solina, Senatore Cappelli e Frasinese.

La generazione di Paolo ha vissuto il profondo cambiamento del lavoro sui campi; quel mutare dei tempi che, nel rituale della tresca e nel momento del ristoro, si traduce anche nella comparsa, intorno agli anni ’70/’80, di prodotti più “moderni”, esotici.

Si pensi alla mortadella, oppure ai “frufru” (wafer) che prendono  piede per lo spuntino o la merenda. La tresca era la ricorrenza ideale per ostentare il benessere, per abbracciare quella modernità che, nei roboanti anni ‘80, ripudia anche a tavola quel passato fatto di stenti, fatica e povertà.

LE SOSTE

"Pane onde" e salumi tradizionali
Uova al sugo con peperoni
Fagioli “socere e nore”
Tacconcelli e fagioli
Vino cotto e finocchietti
Coniglio e patate

Le “soste” indicate da Berardino e Paolo erano diffuse, in buona parte della regione, fino a 50 anni fa. In alcuni casi cambiavano le “denominazioni” e le preparazioni gastronomiche predilette, in base al territorio di riferimento.

LU SDIJUNE
La giornata iniziava alle 4 con lo sdijune, una zuppetta d’orzo o in alternativa un vigoroso bicchiere di vino cotto, da accompagnare al pane raffermo, ai finocchietti  (chumberzijune nel pescarese), conosciuti come “biscotti della tresca”, oppure alle classiche pizzelle morbide.

LA STOZZA
Dopo qualche ora, intorno alle 7 del mattino, c’era la stozza, uno spuntino all’insegna di pane e onde (pane e olio) o pizza scima, cacio, salumi come il salsicciotto frentano e la salsiccia a campanella, e poi l’immancabile vino. Solitamente la stozza si consumava in piedi, era un pasto veloce.

LA REMBRENNA
Tra le 9 e le 10 toccava alla “rembrenna”, una colazione contraddistinta da preparazioni “cucinate”, così spazio a “chiccocce” (zucchine) e patate, la cipollata (una frittata umida con tanta cipolla, pomodoro e uova), fagiolini e patate, fagioli “socere e nore”, uova al sugo, fresche insalate di pomodori, peperoni arrosto, pallotte cacio e uova, il tutto innaffiato da vino cotto o sorsi di acqua e limone.

IL PRANZO, LU MEZZE JÙRNE
Il culmine della giornata gastronomica era rappresentato dal pranzo, trasportato all’interno di grandi canestri dalle donne e consumato, sui “mantili” (le tovaglie), direttamente nei campi.
A spadroneggiare era la pasta, in particolare quella “secca” con le zite oppure con gli “gnocconi”, una sorta di mezzo pacchero. I condimenti prescelti erano il sugo di papera muta o quello con lo spezzato di “pollastro”: il pollo a pezzi era “soffocato”, soffritto in capienti tegami di terraccotta e, una volta cotto, veniva rimosso per fare spazio alla passata di pomodoro indispensabile per impreziosire il condimento della pasta.
E poi ancora il coniglio in umido con i peperoni, lo spezzatino, il pollo cotto nel forno a legna. A irrorare le gole arse, lu trùffìle (orcio), che grondante di vino cotto passava di mano in mano.

LA SVIVITELLA
Verso le 5 del pomeriggio era il momento della “svivitella”, una merenda con pizza di mais (grandénie), pizza “ricresciuta” (lievitata e cotta sotto al coppo), “pomodoro a insalata”, cetrioli, turtarelle, laccio (sedano), frittata di peperoni e uova, fagiolini lessati e conditi con pomodoro e menta, la giuncata, il cocomero fresco, senza farsi mancare ovviamente il dolce con taralli casalinghi o finocchietti imbevuti nel vino cotto.

LA CENA
Finalmente, all’imbrunire, ci si sedeva tutti insieme a tavola per cenare e discutere del raccolto e delle fatiche della giornata. A condire il tutto un pasto più “light” con sagnette e fagioli, frascarelli, pane cotto, lu ciabbotte: sostanziosi tegami di verdure e ortaggi.
La serata si concludeva con balli e canti, una grande festa collettiva accompagnata dalle note del du bott.

 

[Crediti | Foto di copertina di Caniloro, le altre foto sono di www.sangroaventinoturismo.it, Carmelita Cianci, Scuola del Gusto Abruzzo. Le foto "d'epoca" provengono dai portali vastospa.it e lifeinabruzzo.com]