L’Abruzzo regala prodotti di altissima qualità, e tra questi non si può in alcun modo non menzionare sua maestà il tartufo. La regione verde d’Italia, che si estende dal mare alla collina fino alla montagna, raggiunge da sola il 40% della produzione nazionale. I terreni, le piante simbionti che crescono nella regione, il microclima differente nelle varie province, sono ideali per la crescita delle numerose varietà di tartufo: se ne contano almeno 28, dal nero pregiato al bianco pregiato, passando per il tartufo nero invernale e quello nero estivo o scorzone.
Il tartufo d’Abruzzo, che rientra nei Pat, prodotti agroalimentari tradizionali, è conosciuto e apprezzato da secoli e cresce sia in modo spontaneo che coltivato ed è un ottimo biglietto da visita dell’agricoltura di qualità.
La Valle Subequana, un luogo ricco di vegetazione e di storia sul versante aquilano del massiccio del Sirente, è una delle zone dell’Abruzzo interno che regala questi pregiati tartufi, oltre ad offrire un miele eccezionale e lo zafferano dell’Aquila, che il disciplinare della Dop prevede si possa coltivare anche in quest'area.
Fagnano Alto, comune diffuso composto da dieci piccoli borghi di montagna di origine medievale disposti ad anello, che fu tra i 99 castelli che contribuirono a fondare la città dell’Aquila nel 1254, proprio per la sua posizione all’interno del Parco Sirente-Velino, è il paradiso del tartufo: nei boschi limitrofi al paese, infatti, si raccoglie e si coltiva il prezioso tubero.
Fabrizio Di Pasquale è un produttore, coltivatore, raccoglitore e trasformatore, proprietario dell’azienda Cuore nero d’Abruzzo, che ha sede proprio a Fagnano. Altoatesino di nascita è tornato alle origini trasferendosi nell’Appennino abruzzese e portando avanti con passione un’attività che si tramanda da generazioni.
“L’azienda nasce da un’idea della mia famiglia, e di mio padre, un fagnanese doc, che più di 40 anni fa, per esigenze lavorative, si è trasferito a Bolzano, dove io sono nato – racconta Fabrizio –. La mia famiglia è stata una pioniera nella coltivazione del tartufo in questa zona, impiantando le prime piante micorizzate. Loro mi hanno tramandato questa passione, che mi ha travolto, e ho iniziato questa avventura che mi sta dando molte soddisfazioni”.
La zona di Fagnano è la patria naturale di due varietà, il nero pregiato ed il nero estivo, ma essendo i tartufi funghi ipogei sprovvisti di clorofilla, che per poter sopravvivere hanno bisogno di trarre nutrimento da piante o arbusti con le quali sono in simbiosi, la tartuficoltura è diventata oramai una pratica comune in questo e in altri luoghi dove questo fungo cresce spontaneamente.
Fabrizio cura personalmente, insieme al padre e allo zio, le diverse tartufaie che occupano ormai una superficie totale di circa 5 ettari, tutte nel comune di Fagnano Alto e nelle aree limitrofe.
“Da diversi anni abbiamo iniziato le coltivazioni con le piante micorizzate. La prima tartufaia che abbiamo impiantato ha 15 anni, e da poco abbiamo fatto una nuova tartufaia dove abbiamo messo a dimora 250 piante. Facciamo tutto nella maniera più naturale possibile, senza ausili artificiali, ma la coltivazione non è sempre semplice. La crescita del tartufo coltivato, come quello spontaneo, dipende da variabili metereologiche, dal clima e dall’andamento della stagionalità, ad esempio dalla quantità di piogge o, nel caso dell’estivo, anche dalla neve che fa in inverno. Ma ci sono anche altri fattori che ne influenzano la crescita e le quantità. Innanzitutto, per poter vedere i primi risultati nelle piante inoculate, alle cui radici ci sono le spore, c’è bisogno di un tempo minimo di 5 anni, e poi dipende da come le piante attecchiscono nel terreno. È tutto molto variabile, ci vuole molta cura e attenzione”.
Attento conoscitore del territorio e delle pratiche di cava tradizionali, oltre a quello prodotto nelle sue tartufaie, Fabrizio raccoglie anche il tartufo che cresce spontaneamente nei verdi boschi del Sirente, tra i rigogliosi alberi di quercia, faggio e nocciolo e implementa le due varietà autoctone andando a prendere “fuori L’Aquila, ma sempre in Abruzzo, anche il bianco e il bianchetto”.
Per la ricerca del tartufo, sia esso coltivato o spontaneo, come tutti i produttori anche lui si avvale dei suoi amici a quattro zampe, perché “senza l’ausilio del fiuto sarebbe impensabile riuscire a visualizzare il tartufo”.
Il cane da tartufo per eccellenza è il lagotto, per la sua estrema docilità, la resistenza alla fatica e la mancata distrazione dalla selvaggina, ma “io preferisco altre razze – dice Fabrizio –. Noi abbiamo sei cani addestrati che si alternano nella cerca tra cui Luna, un labrador, e Anya, un Korthals. Apprezzo queste due razze perché il primo, ad esempio, è un tipo di cane molto calmo, quindi anche nella raccolta ti sta vicino, mentre l’altro si muove di più, spazia e trova altro tartufo più lontano”.
“Tra il tartufo coltivato e quello che si trova in natura non ci sono sostanziali differenze organolettiche e di sapore – spiega Fabrizio – anche se i più attenti riescono a notare la differenza. Sicuramente quello che troviamo in tartufaia ha una rotondità maggiore e un aspetto visivo migliore di quello che si trova in natura. E, anche se non è proprio evidente, al gusto e all’olfatto quello naturale ha maggior sapore e un profumo più intenso, perché soffre di più i periodi secchi e tutte le variazioni climatiche che possono portarli a maturazione o meno. Queste caratteristiche sono tra quelle che fanno crescere il prezzo dell’uno rispetto all’altro, su cui influisce anche il fattore fauna selvatica. Cinghiali e istrici sono ghiotti di tartufi e sono un problema, essendo noi nella zona del Parco dove c’è anche il divieto di caccia. Per evitare che mangino la produzione l’unica cosa che possiamo fare è recintare, anche se la classica rete non è sufficiente e bisogna andare in profondità, inserendo reti elettrosaldate che non permettono loro di scavare”.
Fabrizio si occupa anche della trasformazione del tartufo nel suo laboratorio, che presto potrebbe ampliare in una nuova sede in cui saranno presenti anche due sale degustazione e il negozio.
Ed è anche uno chef. Nei suoi trasformati, così come nel suo ristorante che ha aperto un anno fa nel suggestivo borgo di Santo Stefano di Sessanio (L’Aquila), propone ricette che valorizzano il pregiato tubero, rispettando le tradizioni ma con un pizzico di innovazione, esaltando i sapori autentici della cucina tradizionale abruzzese e usando prodotti rigorosamente di piccoli imprenditori locali.
“Abbiamo iniziato con la produzione di quelli che poi sono diventati i nostri cavalli di battaglia, pensati per poter degustare il tartufo in purezza, in quanto viene aggiunto solamente l’olio: il battuto, un trito di tartufi, e il carpaccio, tagliato a lamelle. Facciamo anche una vecchia ricetta che ho ritrovato, e che veniva fatta durante la sagra di Fagnano Alto, in cui al tartufo vengono aggiunti olio, acciughe, aglio e una spruzzata di limone, per accentuare il profumo e gli odori del tartufo stesso. Negli anni abbiamo anche aggiunto altri prodotti tra cui una crema cacio e pepe e tartufo, forme di pecorino aromatizzate con tartufo e zafferano, appoggiandoci per la produzione casearia ad aziende della zona, tenendo sempre una filiera a km 0”, conclude il produttore.
Valorizzare un tesoro gastronomico come il tartufo d’Abruzzo e le varietà che crescono nella Valle Subequana è una missione che Fabrizio si impegna a portare avanti mantenendo viva un’arte antica quale quella della ricerca, tenendo anche uno sguardo attento verso un futuro sostenibile.