Conosciuto e apprezzato già al tempo dei Romani, il vino cotto è un prodotto tipico abruzzese diffuso in tutta la regione e che trova la sua massima espressione a Roccamontepiano, piccolo borgo della provincia di Chieti alle porte del Parco Nazionale della Maiella.
Il vino cotto di Roccamontepiano
Il vino cotto si ottiene attraverso la concentrazione del mosto in caldaia con cottura diretta o indiretta, viene poi “rabboccato” con mosto fresco, per agevolare il processo fermentativo, quindi fatto fermentare e poi invecchiato in botte di rovere minimo due anni, ma può arrivare a tempi lunghissimi, e a Roccamontepiano ci sono botti che hanno anche 100 anni. È proprio l’invecchiamento a migliorare progressivamente la qualità del vino cotto, preservandone la fragranza.
Il vino cotto, una tradizione condivisa con i vicini cugini marchigiani, viene definito già nell’antichità da Plinio il Vecchio “frutto dell’ingegno dell’uomo”, in quanto la metodica produttiva contemplata, la riduzione del mosto attraverso la cottura, rende il vino meno soggetto alla trasformazione in aceto, quindi lo conserva a lungo.
Questa consuetudine è da ricercarsi nell’origine del vino cotto che è legata all’ambiente rurale: in passato, quando il proprietario del terreno sceglieva per se le uve migliori, lasciava al contadino quelle più rovinate, contraddistinte da un basso grado zuccherino. L’espediente quindi era la “cotta”, così da ottenere una sostanza rinforzata e conservabile, che risultava persino migliore del vino del padrone.
La gradazione alcolica del vino cotto si aggira intorno ai 15° e varia a seconda della tecnica di produzione e del periodo di invecchiamento. Il vino cotto può risultare più secco o più dolce, per la maggiore o minore presenza di residui zuccherini. L’ odore è intenso, mentre il retrogusto è sempre asciutto e sapido. Il colore, determinato dalla caramellizzazione degli zuccheri, va dal rosso ambrato al rosso granato.
Il grande valore storico, culturale ed economico del vino cotto è testimoniato dalle tante donazioni, divisioni e successioni di cui è stato oggetto in passato: ciascuna botte veniva trattata alla stregua di un bene di grande valore, degno persino di essere portato in dote.
Ancora oggi la tradizione locale vuole che alla nascita di un figlio maschio si metta a maturare una botte di vino cotto, conservato fino al giorno del suo matrimonio.
Per conoscere meglio il vino cotto di Roccamontepiano e le sue peculiarità, incontro Massimo Donatucci, produttore che mi porta a visitare il centro di cottura della cooperativa in contrada Terranova, e poi una cantina, di una famiglia del posto, che oggi è considerata la più antica del paese, in quanto sopravvissuta alla frana del 24 giugno del 1765.
Intervista a Massimo Donatucci
Il vino cotto è un’eccellenza di Roccamontepiano. Tu da quanto tempo lo produci?
«Il vino cotto è una passione di famiglia e per uso domestico l’abbiamo sempre fatto, come tutte le famiglie qui a Roccamontepiano. Io personalmente lo produco dal 2003, e negli ultimi anni, per la “cottura”, mi sono appoggiato anche alla locale Cooperativa dei produttori: un’impresa collettiva, costituita da 9 soci, che svolge l'attività di produzione di vino cotto e mosto cotto nel centro di cottura in contrada Terranova. Ai tempi, quando è nata, sono stato uno dei promotori di questa realtà, soprattutto per trovare una soluzione alla commercializzazione del vino cotto, storicamente relegato a prodotto esclusivamente “domestico”».
Ora però vuoi avviare una tua azienda agricola, giusto?
«Si, insieme a mio fratello. Attualmente entrambi facciamo un altro lavoro, ma abbiamo deciso di unire le forze per gestire e “strutturare” al meglio quest’attività imprenditoriale che deve andare oltre il “saltuario lavoro del sabato”.
L’idea di avviare una piccola azienda nasce dall’esigenza di ricalcare il valore e la cultura del nostro vino cotto: per noi roccolani, la famosa “cotta” di Roccamontepiano è un autentico vessillo di famiglia. Ogni famiglia ha il proprio gusto nel fare il vino, c’è chi lo fa più dolce, chi più amaro, chi con un certo retrogusto: ogni vino cotto ha delle piccole peculiarità che lo contraddistinguono da quello di un altro. E infatti simpaticamente a Roccamontepiano ognuno ti dirà che il vino cotto più buono è il suo. Ma è giusto che sia così, perché ognuno dà al prodotto il suo “gusto” distintivo».
Che tempi vi siete dati?Quando inizierete?
«L’azienda agricola vedrà la luce per fine anno, tuttavia l’idea imprenditoriale non è legata esclusivamente al vino cotto, ma anche al turismo: c’è l’intenzione di fare e proporre un minimo di accoglienza a chi verrà a trovarci in quanto la narrazione del vino cotto e del suo territorio è essenziale. Inoltre vorrei puntare anche su altri prodotti, come ad esempio il mosto cotto, che nella tradizione locale è molto concentrato e ridotto.
Il mosto cotto è la base del vino cotto e la peculiarità di Roccamontepiano è che la nostra “cotta” raggiunge il punto massimo di riduzione prima che il mosto bruci: riuscire a cogliere il momento giusto è difficilissimo, perché ci sono tanti fattori non calcolabili che possono condizionare il risultato, a partire dall’umidità esterna, è quindi fondamentale l’esperienza».
A proposito di mosto cotto, è un ingrediente imprescindibile nella preparazione dei dolci tipici abruzzesi. Voi a Roccamontepiano come lo utilizzate?
«Qui da noi l’apoteosi del mosto cotto è sui fritti, in particolare la borragine in pastella, un classico piatto della domenica. Poi comunque è molto utilizzato nella preparazione dei dolci abruzzesi. Nei miei ricordi c’è il sapore del mosto cotto persino con la neve, che mia nonna mi preparava quando ero bambino, quello era il mio gelato».
Il vino cotto, invece, come lo consumate?
«È comunemente considerato il vino della convivialità e dell’ospitalità. La consuetudine locale è quella di offrirlo quando arriva l’ospite: più è importante, più si tira fuori dalla botte l’annata più vecchia. C’è una frase dei nostri nonni che per noi è incisa nel profondo dell’animo che è “va a piè quell'” che significa quello vecchio, quello più buono. Per noi la bontà del vino va di pari passo al suo invecchiamento. Non c’è l’abitudine di consumarlo durante i pasti, mentre è perfetto come vino da meditazione o a fine pasto con il dolce».
Che vitigni utilizzate?
«Il Montepulciano, vitigno che si è diffuso ampiamente in questi territori, come in tutta la provincia di Chieti, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Presumibilmente in passato erano utilizzati gli autoctoni del posto, prevalentemente a bacca bianca come il Verdacchione (Montonico), il Pecorino, la Cococciola. In origine il vino cotto veniva prodotto utilizzando le uve di scarto, oggi invece si scelgono solo le uve migliori, raccolte alla giusta maturazione».
Quanti ettari avete?
«Noi personalmente abbiamo qualche vigneto di Montepulciano d’Abruzzo in Contrada Pomaro, a circa 300 metri di altitudine, ma in termini di quantità non arriviamo neanche a un ettaro. Quindi, in prospettiva dell’azienda agricola, l’idea è quella di recuperare ove possibile i vigneti che già ci sono e poi impiantarne di nuovi. Con il discorso del cambiamento climatico sono molto favorevole alla viticoltura in quota, tuttavia essendo Roccamontepiano a ridosso del Parco Nazionale della Maiella ci sono alcuni rischi collaterali legati alla fauna selvatica che può danneggiare la vigna. Ad ogni modo la nostra sarà una piccola realtà artigiana che punterà tutto sulla qualità, a discapito della quantità».
In vigna farete il biologico?
«Al momento la nostra ambizione non è una certificazione, continueremo a lavorare come facciamo abitualmente, nel pieno rispetto dell’ambiente, cercando di non utilizzare prodotti chimici nei nostri vigneti, ma anche in cantina. Il vino cotto stesso è “naturalmente” naturale, in quanto la “cotta” è un metodo di conservazione che a Roccamontepiano abbiamo migliorato e affinato nel corso dei secoli rispetto a quello che volgarmente chiamavamo il “conservato” ovvero il vino da pasto con un po’ di cotta dentro che nell’antichità si utilizzava per conservare naturalmente il prodotto».
Tornando al discorso della “cotta” quale vessillo di ogni famiglia di Roccamontepiano, cosa contraddistingue il vostro vino cotto?
«Noi preferiamo farlo leggermente più amaro, e questo rende la procedura ancora più difficoltosa, perché il dolce lo tiri fuori prima, con l’amaro invece si continua a caramellare cercando di raggiunge il punto massimo di riduzione prima che il mosto bruci, quindi aumenta il rischio di sbagliare e buttare il prodotto, ma fortunatamente a noi non è mai successo, perché ormai l’esperienza è tanta e ci aiuta. Ma di sicuro riuscire ad ottenere un vino cotto più aspro, più amaro, più caramellato è più difficile che averne uno più dolce».
Il vino cotto più vecchio che custodite in cantina?
«Mia zia ha una botte del 1908, noi invece nella nostra cantina ne abbiamo una del 1948, l’anno che è nato mio padre. Ovviamente questi sono ricordi di famiglia che non andranno mai sul mercato. Invece l’annata più vecchia “in commercio” ha vent’anni».
Nel modo di fare il vino cotto, hai cambiato qualcosa rispetto ai tuoi nonni o comunque alla consuetudine locale del passato?
«Dal 2003 lavoriamo esclusivamente con materiali di nuova concezione ovvero non utilizziamo il rame, bensì il paiolo in acciaio. Lo riteniamo fondamentale per il nostro prodotto, non per andare contro i nostri nonni o la “tradizione”, ma i nostri nonni quel materiale non l’avevano, sono convinto che se avessero avuto l’acciaio a disposizione l’avrebbero utilizzato al posto del rame. C’è chi la pensa diversamente e rimane “integralista” ed è giusto e bello che sia così, perché torniamo nello spirito della cultura del vessillo di famiglia. Quanto al fuoco, i puristi del genere vanno sul diretto, noi invece utilizziamo sia il fuoco diretto che indiretto. Quest’ultimo è un metodo che porta via qualche ora in più, ma fondamentalmente il mosto deve bollire. Noi diciamo sempre “orto e vino cotto, uomo morto” ovvero il segreto del vino cotto è il tempo, nel farlo e nel custodirlo. L’invecchiamento lo facciamo in botti di rovere usate, mentre in passato i nostri nonni utilizzavano botti in quercia o castagno».
Sul fronte commercializzazione come ti organizzerai?
«Attualmente commercializzo attraverso la cooperativa, mentre con l’azienda che nascerà a breve punterò molto sull’e-commerce e cercherò di inserirmi nel circuito delle botteghe specializzate, soprattutto fuori regione. Il vino cotto deve necessariamente rivolgersi a una nicchia ristretta di cultori, il prodotto è poco e di qualità elevata, e non può essere svenduto, quindi è importante posizionarlo nei punti e nei posti giusti».
So che a breve il vino cotto di Roccamontepiano diventerà Presidio Slow Food.
«In realtà è la cotta di Roccamontepiano che diventerà Presidio Slow Food, sia per il vino cotto che per il mosto cotto. La particolarità di cottura del mosto, e quindi il punto massimo di riduzione che facciamo a Roccamontepiano, è davvero peculiare. Noi da un ettolitro di mosto facciamo una riduzione del 70/80% quindi tiriamo fuori circa 30/20 litri, mentre spesso altrove si riduce del 30% e si tirano fuori 70 litri, diciamo che fanno quello che i nostri nonni chiamavano “conservato”, è comunque vino cotto, ma differisce molto rispetto al nostro nel risultato finale. Secondo noi più si arriva al limite, raggiungendo il punto massimo di riduzione e concentrazione, migliore sarà la struttura e la qualità del prodotto finito».
[Crediti | Foto di Carmelita Cianci]