“Sono tre le motivazioni che rendono famoso questo pecorino, la prima è sicuramente l’area di produzione stabilita dal disciplinare – spiega Annalisa Marzola, presidente del Consorzio dei produttori – che riprende quella originaria, cioè l’alta collina, la zona pedemontana del versante sud-orientale del Gran Sasso. La maggior parte dell’area si trova all’interno del Parco nazione del Gran Sasso e Monti della Laga, una zona ricca di biodiversità, di profumi e vegetazione che poi ritroviamo nel sapore del formaggio. Il disciplinare, poi, prevede anche un’alimentazione degli ovini molto rigorosa e basata sulla stagionalità dei pascoli, con cereali a chilometro zero, mais, orzo, fave, vietando mangimi industriali, insilati, Ogm e tutto ciò che non è naturale. Parliamo di un formaggio a latte crudo, che non subisce nessun processo di pastorizzazione, e io dico sempre che assaggiare un pezzo del nostro pecorino è come assaggiare il nostro territorio!”.
Sono 14 le aziende che producono il Pecorino di Farindola, tutte situate nei nove comuni riconosciuti dal disciplinare: Farindola, Penne, Montebello di Bertona, Villa Celiera, Carpineto della Nora e Civitella Casanova, nella provincia di Pescara, Arsita, Bisenti e Castelli, nella provincia di Teramo.
“Bene o male sono tutte aziende medie o piccole, a parte un paio che sono più grandi. È una produzione artigianale che è la conseguenza di quella che prima veniva fatta solamente al livello familiare, e poi recuperata attraverso il Consorzio”, sottolinea Annalisa.
Ogni azienda porta avanti la tradizione seguendo la ricetta originale e le antiche pratiche che vedono la produzione del formaggio affidata alle donne, prassi che nei secoli le ha viste occuparsi di varie fasi, dalla mungitura alla caseificazione, dalla stagionatura alla conservazione. Questo è il secondo motivo che ha reso celebre il pecorino di Farindola, conosciuto da molti come il “formaggio delle donne”.
“È un’antica tradizione contadina quella di dividersi i compiti, ripresa anche nel disciplinare – racconta Annalisa –, che vede gli uomini dedicarsi al gregge, all’allevamento, ai campi, e la donna alla casa, ai figli, alla cucina e al formaggio. È stata tramandata da madre, in figlia, in nipote ed arrivata a noi dalle generazioni precedenti e speriamo di poterla tramandare alle generazioni future. Il ruolo della donna, però, non deve essere visto come un qualcosa di riduttivo, ma si deve pensare che questo era un compito riservato alla figura femminile. Le donne contribuivano attivamente e con poco riuscivano a fare un prodotto straordinario, avendo a disposizione solo le pecore da cui ricavavano il latte e il maiale dal quale ricavavano il caglio”.
Il caglio suino è la terza, e non ultima, ragione che rende il pecorino di Farindola unico al mondo.
“Se si fa una ricerca su internet digitando caglio di maiale, l’unica risposta che si ottiene è ‘pecorino di Farindola’ – prosegue la presidente -. Una volta si utilizzavano le risorse che si avevano, e in ogni casa si allevava un maiale. Dal momento che, come si dice, del maiale non si butta via niente, hanno avuto l’idea di utilizzarlo per fare il caglio che si produce dalla parte interna dello stomaco del maiale, lavata e pulita per bene, e messa in infusione con vino bianco e sale. Il vino che viene usato è il Montonico di Bisenti, un vitigno autoctono della nostra zona. Il disciplinare richiama l’antica tradizione di produzione del caglio a cui in genere vengono aggiunte delle spezie, che possono essere dei grani di pepe o il peperoncino. Questo può variare minimamente da famiglia a famiglia, ma la mia famiglia da generazioni ha sempre fatto il caglio suino mettendo sia pepe che peperoncino. E dopo essere stato messo in infusione per 3-4 mesi è pronto per essere utilizzato”.
La procedura per la creazione del pecorino, un formaggio di altissima qualità a pasta semidura con frequente scagliosità nel prodotto stagionato, è specificata minuziosamente nel disciplinare: il latte ovino appena munto viene messo a scaldare, senza portarlo a bollitura, ma tenendo la temperatura intorno ai 34 gradi per non fargli subire un processo termico che fa perdere le caratteristiche organolettiche. Si procede poi rompendo la cagliata in grani, estraendola e mettendola nelle fiscelle di vimini, o di plastica, che disegnano sulla superficie le tipiche striature.
La stagionatura è la fase più importante e inizia con la salatura a secco, con sale grosso, sulle facce principali. Il giorno seguente viene “lavato, messo ad asciugare e poi posto su tavoli di legno per un periodo più o meno lungo, circa un mesetto, fin quando la crosta non è ben formata – prosegue Annalisa, che si occupa anche della produzione –. Dopo di che cominciamo ad ungerlo con olio e aceto, il primo per dare morbidezza, l’altro per proteggerlo dai batteri. Quando la crosta comincia a diventare dura, per favorire una stagionatura lenta, lo conserviamo in armadi di legno. Lì può restare dai 40 giorni fino ad un anno in quanto è un formaggio che si presta anche ad una lunga stagionatura, specialmente se si tratta di forme abbastanza grandi”.
Il pecorino di Farindola si produce tutto l’anno anche se, come precisa Annalisa, “è diverso di stagione in stagione, e a volte anche da zona a zona. Per far sì che le varietà botaniche siano più o meno le stesse per tutti i produttori e per uniformare il sapore del nostro formaggio, il consorzio abbraccia un’area che si trova più o meno alla stessa altitudine”.
Il lavoro fatto dal Consorzio è stato importante sia per sostenere la produzione ma anche per la valorizzazione di questo prodotto. Farindola, infatti, e con lei tutti e nove i comuni del consorzio, grazie al suo famoso Pecorino, lo scorso anno ha ricevuto il titolo di Città del Formaggio 2023 entrando così a far parte della rete nazionale dell’Onaf, l’Organizzazione nazionale Assaggiatori di Formaggio, riservata alle produzioni casearie d’eccellenza e di grande importanza culturale.
“Un traguardo significativo per ‘La Terra del Pecorino’, per i suoi comuni e per tutti i produttori, che con testardaggine e tenacia continuano a portare avanti una tradizione radicata in una terra che sa di casa”, conclude Annalisa.