“Qui a Santo Stefano la storia della lenticchia si perde negli anni, noi la coltiviamo da tantissimo tempo – racconta Ettore Ciarrocca, presidente del consorzio che riunisce i produttori e con la sua azienda agricola lui stesso produttore –. È un prodotto che si adatta benissimo al tipo di territorio che abbiamo e le condizioni ambientali ci consentono di non fare ricorso ad ausili chimici. Noi, infatti, non usiamo additivi né pesticidi: sono l’altitudine e il freddo a funzionare da diserbanti e a permetterci di continuare ad avere un prodotto naturale”.
Ettore è un ingegnere che ha scelto di lasciare la professione e tornare a lavorare nell’azienda di famiglia, attività che svolge a tempo pieno, oltre ad avere un negozio di prodotti tipici nel centro del borgo.
“Sono la terza generazione a gestire l’azienda – spiega –. Per circa 15 anni ho lavorato come ingegnere, ma la mia passione era un’altra: dentro sono sempre stato agricoltore. Nel tempo le cose sono cambiate: non è più un’attività di sussistenza come quella che faceva mio nonno, e dagli anni ‘70 abbiamo iniziato a commercializzare le lenticchie, rendendole il prodotto più importante dell’attività”.
La lenticchia di Santo Stefano ha un diametro che si aggira intorno ai 2-5 millimetri, ha un colore scuro, a volte con delle screziature, non richiede di essere messa in ammollo prima di essere consumata, è ricca di ferro, ha pochi lipidi e un alto contenuto proteico.
“La nostra lenticchia – prosegue Ettore – è molto più piccola di quelle tradizionali, ha dei tempi di cottura brevissimi, proprio perché la coltiviamo in quota, al di sopra dei 1.200 metri. Inoltre ogni lenticchia è diversa dall’altra, anche nelle dimensioni, questo probabilmente perché riusiamo gli stessi semi da decenni: quindi è possibile trovare delle lenticchie striate, altre punticchiate di nero. Avendo, poi, dei metodi di raccolta tradizionali, così come i metodi di pulitura, a volte capita di trovare in mezzo alle lenticchie anche qualche seme proveniente dalle piante circostanti".
“È prodotta secondo quelli che erano i metodi antichi, quelli utilizzati quando non aveva senso parlare di colture biologiche – precisa –. Abbiamo un’attività sostenibile, che non consuma il suolo e per il rinnovo del terreno utilizziamo il principio del sovescio. Questo ci permette di avere pratiche agricole virtuose e un prodotto nobile in termini di gusto e di valori nutrizionali”.
In passato, prima che se ne capisse l’importanza per conservare le tradizioni, ma soprattutto per sostenere lo sviluppo dell’economia locale, la lenticchia veniva venduta e commercializzata in altre zone più o meno vicine.
“Negli anni passati la lenticchia di Santo Stefano non era famosa e conosciuta come adesso: fino ai primi anni 80 gran parte del prodotto che veniva raccolto era commercializzato a Castelluccio di Norcia con quel nome. Ma, a dire la verità, noi anche in quel periodo già producevamo due tipi di lenticchia: quella tipica delle nostre zone e la lenticchia verde che, invece, è quella tipica di Castelluccio. La commercializzazione della nostra lenticchia è iniziata già sul finire degli anni 70 e la sua popolarità è aumentata finché, nel 2005, insieme al Parco abbiamo costituto un presidio. Il Parco ci ha dato un grosso aiuto per rendere il prodotto più conosciuto, anche se spesso abbiamo i campi completamente danneggiati dalla fauna selvatica”.
Le difficoltà di sopravvivenza, la crescita sui terreni impervi e il clima freddo dell’altopiano del Gran Sasso, però, sono proprio quello che rendono unica, e pregiata, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio.